La genesi della Bugatti EB110 è anche la genesi di una Bugatti che torna a vedere la luce del Sole dopo che l’ultima vettura stradale uscì dalla fabbrica di Molsheim nel 1953.
Ma come è nata questa storia? In verità, si è trattato di una genesi alquanto articolata e per certi versi sofferta. Inizia con Romano Artioli e la sua ferrea determinazione a riportare in vita un nome storico come Bugatti. Un’ardua missione se si pensa a ciò che questo nome ispira alla mente: innovazione, bellezza, lusso, sport, vittoria. Una scommessa molto sfidante, impegnativa sul piano delle aspettative del mercato.
A questo progetto vengono chiamati a partecipare personaggi come Ferruccio Lamborghini, che però si chiamerà fuori ancora prima che il progetto stesso prenda forma. Due galli nello stesso pollaio non funzionano. Sul piano tecnico, la direzione del progetto fu proposta all’ingegner Paolo Stanzani, che veniva dalla Lamborghini e la cui immagine è strettamente legata alla Miura, alla Espada, all’Urraco e alla Countach. Certamente un biglietto di visita ideale per prendere l’incarico di creare l’auto che voleva Artioli. La progettazione del motore fu affidata allo studio di progettazione Tecnostile di Tiziano Benedetti, Achille Bevini e Oliviero Pedrazzi, tutti provenienti dall’area Lamborghini all’epoca di Ferruccio. Tuttavia, il motore, la trasmissione, il cambio e il differenziale centrale furono progettati da Oliviero Pedrazzi un tecnico dalle straordinarie capacità e rapidità di esecuzione. Tecnostile fu incaricata di concretizzare le volontà di Stanzani ma soprattutto di Artioli, che a tutti i costi voleva un’auto a 4 ruote motrici. Per riportare in vita la Bugatti, Artioli non voleva fare solo una grande GT, voleva ottenere la migliore GT mai costruita fino a quel momento, un’auto che diventasse un riferimento nell’industria. Questa è probabilmente la ragione principale per cui il rapporto Artioli-Stanzani fu travagliato e terminerà con l’uscita dell’ingegnere ex Lamborghini dal progetto. Ad esempio, Stanzani fece realizzare i telai dei primi prototipi in tubi pannellati con Honeycomb sostituiti dopo molte discussioni per volere di Artioli con il carbonio e in questa forma andati in produzione. Secondo Artioli, l’Honeycomb era un materiale più adeguato a realizzare un’auto da corsa, che una vettura stradale, quindi destinata ad un utilizzo di breve durata. La struttura del telaio avrebbe dovuto essere uno scatolato composto di sottili fogli in alluminio ed una fibra composita. Nel tempo e a seguito di ripetute sollecitazioni, questo materiale tende flettere e ad esfoliare.La EB110 doveva avere nella resistenza all’usura una delle sue qualità distintive, altrimenti non avrebbe mai potuto essere una vera Bugatti. Fu così che la scelta del materiale per il telaio della EB110 cadde sulla fibra di carbonio. La posizione di Stanzani invece, era conservativa e dettata dalla sua esperienza. La tecnica Honeycomb era largamente diffusa in Formula 1 e poteva essere considerata una soluzione tecnica adeguata a ridare lustro al nome Bugatti. Il carbonio non aveva ancora trovato impiego all’epoca a livello stradale e non si sapeva quale avrebbe potuto essere il suo comportamento.
Mancava l’esperienza. La decisione di Artioli fu pertanto coraggiosa ma anche visionaria come visionario fu Ettore Bugatti ai suoi tempi. La costruzione del telaio infatti, fu affidata ad un’eccellenza industriale di livello mondiale, ovvero la Aérospatiale, azienda specializzata in progettazioni aeronautiche e aerospaziali. Anche la carrozzeria avrà uno sviluppo complicato. Diversi nomi illustri vengono interpellati per creare dei modelli tra cui scegliere quello per vestire la prima Bugatti dopo quasi 40 anni dall’ultima vettura prodotta da La Marque. Si prenderà in considerazione la proposta di Marcello Gandini, gradita a Stanzani, ma non convincerà completamente Artioli, che vede nei primi prototipi delle chiare rassomiglianze con lo stile Lamborghini. Il telaio costruito secondo la tecnica Honeycomb mostra le sue debolezze durante i test su strada, come previsto da Artioli, flettendosi e sfaldandosi a causa delle vibrazioni. Questo, insieme alla radicale difformità di pensiero, porterà Stanzani rassegnare le dimissioni. Siamo nel 1990.
Con l’uscita di Stanzani, il progetto vede ridisegnati alcuni ruoli chiave, tra tutti quello di Direttore Tecnico, che Artioli affida all’ingegner Pedrazzi, padre biologico del motore. Riguardo al motore, anch’esso doveva rappresentare un punto di rottura rispetto alle applicazioni dell’epoca: frazionamento a 12 cilindri a V con inclinazione di 60 gradi, monoblocco in alluminio e magnesio, testate in alluminio e titanio, una cilindrata ridotta di soli 3.5 lt. Il propulsore, sistemato in posizione posteriore centrale longitudinale, era in grado di erogare 560 CV (nella versione GT e di ca. 610 CV per la più estrema SS) a 8’500 giri/min. per una coppia massima ragguardevole di 630 Nm a 3’800 giri/min. Tuttavia, le caratteristiche distintive erano le 5 valvole per cilindro, la sovralimentazione con 4 turbo IHI e il cambio era a manuale a 6 marce.Infine, la trazione integrale permanente suddivisa 73% al retrotreno e 27% all’avantreno. Un concentrato di applicazioni di nuova concezione per l’epoca, tutte su un’unica vettura.
D’altronde, la macchina aveva una grande responsabilità: convincere il settore e il mercato di essere meritevole del nome Bugatti. Doveva stupire, letteralmente. A questo scopo, i contenuti estremi del motore nascono da una spinta più commerciale che tecnica. Queste soluzioni tecniche però, per quanto fascinose implicano un’importante esperienza in termini di sviluppo e messa a punto e per queste ragioni Artioli si affiderà all’ingegner Nicola Materazzi. Certamente Materazzi non avrebbe proposto i 4 turbo o le 5 valvole per cilindro e a lui rimase il compito di rendere affidabile il progetto considerata la sua importante esperienza di progettista, specie a seguito della realizzazione del progetto della Ferrari F40. Tuttavia, sebbene lo sviluppo stesse evolvendo in modo fluido, si venne a creare un attrito anche con l’ingegner Materazzi, che voleva una modifica al design della macchina, per non spostare una coppia di radiatori. L’epilogo furono le dimissioni dell’ingegner Materazzi e il passaggio delle fasi finali dello sviluppo al gruppo di lavoro dell’ingegner Pedrazzi.
Lavorarono “sul campo” anche i collaudatori Loris Bicocchi e Jean-Philippe Vittecoq. La configurazione definitiva della EB110 prevede l’adozione di un telaio in Nomex, una variante meta del para-aramide Kevlar. Una breve parentesi sul Nomex aiuterà a capire la ragioni tecniche per cui Artioli insistette affinché la EB110 fosse dotata di un telaio con questo tipo di materiale nonostante le competenze di primo piano di cui si avvalse, si espressero diversamente.
Le fibre Aramidiche sono fibre polimeriche caratterizzate da una resistenza meccanica a trazione confrontabile con quella delle più comuni fibre in carbonio ma da un modulo elastico mediamente più basso. Per contro, in ragione del loro peso specifico più basso (1.4 g/cm3 contro 1.8 g/cm3 del carbonio) le fibre aramidiche sono caratterizzate da una più elevata resistenza specifica intesa come resistenza meccanica a trazione rapportata al peso specifico del materiale. In altre parole, il Nomex ha una rigidità torsionale di alto profilo in campo telaistico. Appare chiaro quindi, come Romano Artioli abbia dedicato una sostanziale parte della sua vita per prepararsi ad affrontare il progetto di riportare in auge la Bugatti anche sul piano dei contenuti tecnici.
La messa a punto della EB110 e i risultati ottenuti, si possono meglio comprendere attraverso le parole dello stesso Loris Bicocchi secondo il quale la macchina non aveva mai reazioni imprevedibili o di difficile gestione, nonostante non fosse che dotata del solo ABS. Niente elettronica sofisticata come ausilio al conducente. Il motore aveva una notevole elasticità e trasmetteva il senso del rapporto uomo-macchina sulla strada. In altri termini, la EB110 fa sentire la sensazione della guida proprio grazie all’assenza di quei filtri dati dai software che si trovano nelle centraline delle hypercar moderne. Se quest’auto sia in grado di dare le emozioni che solo una vettura ad alte prestazioni può dare, una risposta eloquente si trova in uno dei suoi svariati record raggiunti: sempre con Jean-Philippe Vittecoq alla guida, la EB110 (nella versione SS, Super Sport) fece registrare un tempo di 7.44 minuti sull’anello grande del Nürburgring nel 1993. Solo la Pagani Zonda S riuscirà ad eguagliarlo nel 2002, 9 anni dopo.
Il progetto ha sofferto le sue vicissitudini anche sul versante della carrozzeria. Artioli chiese a Gandini di modificare il design eccessivamente squadrato della macchina. L’insistenza di Artioli nel volere una carrozzeria con una personalità spiccata, che possa essere associata al nome e allo stile Bugatti, ancorché presa in prestito o peggio copiata dallo stile di altri brand automotive, porta ad un nuovo muro contro muro. Il rifiuto del designer a modificare anche soltanto le linee della carrozzeria causa molta tensione in quanto di lì a poco era stata programmata la data della presentazione ufficiale della vettura, il 15 Settembre 1991 in pompa magna a Parigi. La situazione era delicata e Artioli chiese all’architetto Giampaolo Benedini, che già aveva curato la progettazione della Fabbrica Blu, l’avveniristico sito produttivo di Bugatti Automobili SpA a Campogalliano (Modena), di dare alla EB110 il suo aspetto definitivo. Si può dire che si trattò di un lavoro a tempo di record,perché Benedini ebbe circa 3 mesi per ultimare l’estetica dell’auto. Un compito non semplice in simili condizioni, senza essersi mai espresso stilisticamente in precedenza su un progetto automobilistico. Apparentemente, una scelta disperata da parte di Artioli. Anche qui però, le parole del diretto interessato forniscono la chiave del successo: i contesti tra costruzioni ed automobili sono diversi ma i criteri nella valutazione dei volumi e dei loro rapporti sono identici (da La Manovella 09.09.2020). Benedini si è limitato ad intervenire laddove le forme risultavano pesanti, per ammorbidirle, specialmente su frontale e posteriore. Per creare il richiamo alle Bugatti del passato, si era ispirato alla Type 251, dalla quale trasse soprattutto la linea del frontale con il radiatore a forma di ferro di cavallo, poi ridotto di dimensioni. In buona sostanza (da La Manovella 09.09.2020) (foto della Tipo 251?), si è trattato di un connubio tra tanta passione per l’automobile unita ad un lavoro di affinamento su un impianto stilistico preesistente. Cionondimeno, con questa revisione delle forme l’auto piacque ad Artioli, che comunque non avrebbe potuto più permettersi ulteriori cambiamenti. A posteriori, si può asserire che le modalità forzate e un po’ rocambolesche con cui ha preso vita il design della Bugatti EB110, sono la ragione per cui esso risulta attuale ancora oggi. Si è trattato di un disegno scevro da concetti e linee precedenti, distaccato dalle mode dell’epoca. La summa delle notevoli difficoltà incontrate e della litigiosità di parte dei protagonisti, avrebbero potuto essere da sole sufficienti per schiantare un progetto tanto avveniristico, ma ciò che più sorprende della vicenda della Bugatti EB110 non è tanto questo, piuttosto come un’azienda nata dal nulla sia riuscita a progettare e costruire un’automobile così superiore a qualunque altra della sua epoca in poco più di un anno.